Era uno di quei giorni di primavera, quella che si era
fatta aspettare, finalmente era arrivata, dentro le giornate limpide e
le nuvole alterne, di gocce e di aria, ora tiepida ora da far
rabbrividire.
Una di quelle giornate da
scampagnata, ma il senso di quella giornata era un'altro, la giornata
dei lavoratori, delle rivendicazioni, delle belle riunioni di piazza,
dove un qualunque saccente ben fornito di dialettica si innalza su un
pulpito e istiga la gente, gente contro gente, ideali assopiti vengono
risvegliati, fervori e rabbie latenti rinforzate, canti del passato
proposti come colonne sonore dell'oggi che in nulla è variato.
Dio,
quanto volevo evitare tutto questo e ricordarmi che era giorno di
festa, dove non pensare ai fastidi di domani. Eppure venivo catapultata
li in mezzo agli altri, gioiosi e invasati dentro la fasulla ideologia
di avere un potere se dentro una piazza potevano cantare e farsi
sentire, dentro la fasulla convinzione che il biglietto d'entrata
potesse servire a sanare un qualche cosa che riguardava tutti noi...e
invece quell'introito se lo sarebbero spartiti quei pochi avvoltoi e
parassiti che ci attiravano come farfalle nella tela di un ragno, e noi
ignari e consapevoli eravamo li comunque e ad ogni costo.
Fu
allora la fantasia, quella che nella confusione del momento prese il
sopravvento, portandomi lontano dalla folla e dalla confusione, dal
vociare concitato, dagli striscioni bianchi imbrattati di verità e di
insulti, dal rosso delle bandiere intrise del sangue di chi sudore da
dare non ne aveva ormai più, lontano dall'indignazione scritta dentro ma
mai del tutto dimostrata nei fatti.
La
fantasia mi spinse dentro gli occhi di uno dei tanti che erano li, gli
sguardi si incrociarono spesso durante la giornata, in un rincorrersi e
un cercarsi, un fuggire dall'ovvio e ritrovarsi al di là, nella giornata
che avrei voluto: stesi in un prato a sbirciarci di sottecchi tra i
fili d'erba e i fiori selvatici, a sorriderci tra le ciocche di capelli
scompigliate nel vento, e come una nuvola che si in frappone tra terra e
sole mi attirasti su di te, mordendomi mani e collo, solleticandoci
avrei riso sfuggendoti, cercando nella corsa la mano ...
Tutti
e due a guardarci, a giocare ancora dentro un fiume di gente che ci
attorniava e ci spingeva fin a farci arrivare l'uno contro l'altra e non
sono ora gli occhi a sfiorarsi, ma le mani di nascosto si cercano,
strofinandosi al ritmo di una musica e di un canto che nulla appartiene a
quella piazza, ma risuona come sfondo all'intreccio dei corpi,
nell'immaginario nudi, ci diamo uno sguardo sorpreso e un sorriso,
arrossendo.
Indietreggiammo insieme,
passo dopo passo, strascicando i piedi, spingendo e scivolando tra
braccia e corpi sudati, tra parole e mezze parole senza un senso preciso
che formavano discorsi assurdi, ci ritrovammo sputati fuori dalla
folla, ai margini del bosco che costeggia la radura piena di gente, e in
esso ci addentrammo, quel tanto per sfuggire agli occhi indiscreti,
allora un tronco ruvido ci faceva da riparo schiacciati l'uno contro
l'altra le labbra si cercavano ci scambiammo un bacio lungo e frenetico,
il sapore del sudore che imperlava i volti si mescola alla saliva, le
mani scorrevano sotto i vestiti leggeri alla ricerca di sapori nascosti
tra sguardi struggenti e implorevoli, gli umori caldi e odorosi
impregnano mani e cosce, si liberavano gemiti silenziosi e senza fiato,
si mescolavano i corpi con il creato, tutto divenne spazio indefinito,
scomparvero le folle, le musiche e le parole. La voglia che fluiva nel
grembo venne saziata con assalti ritmici e baci umidi nel calore di una
giornata di primavera che come fine ultimo prendeva la forma della festa
dei lavoratori, ma oggi mi ricorda il giorno in cui venne concepito mio
figlio, con uno sconosciuto padre inconsapevole, un lavoratore
qualunque morto colpito da un proiettile vagante nei tafferugli
sviluppatesi nel giorno del 1° maggio ...
(racconto
inventato, che mette in luce alcuni aspetti della ricorrenza,
trascinando in un finale che ha del possibile e è nella coerenza dei
nostri giorni)
IvanaZoia tutti i diritti riservati 2012 vietata la riproduzione
P.S. Il racconto nasce ispirato a uno scritto-poesia di Cesare Pavese "Lavorare stanca" riportata qui di seguito:
I due, stesi sull'erba,
vestiti, si guardano in faccia tra gli steli sottili:
la donna gli morde i capelli
e poi morde nell'erba. Sorride scomposta, tra l'erba.
L'uomo afferra la mano sottile e la morde
e s'addossa col corpo. La donna gli rotola via.
Mezza l'erba del prato è così scompigliata.
La ragazza, seduta, s'aggiusta i capelli
e non guarda il compagno, occhi aperti, disteso.
Tutti e due, a un tavolino, si guardano in faccia
nella sera, e i passanti non cessano mai.
Ogni tanto un colore più gaio li distrae.
Ogni tanto lui pensa all'inutile giorno
di riposo, trascorso a inseguire costei,
che è felice di stargli vicina e guardarlo negli occhi.
Se le tocca col piede la gamba, sa bene
che si danno a vicenda uno sguardo sorpreso
e un sorriso, e la donna è felice. Altre donne che passano
non lo guardano in faccia, ma almeno si spogliano
con un uomo stanotte. O che forse ogni donna
ama solo chi perde il suo tempo per nulla.
Tutto il giorno si sono inseguiti e la donna è ancor rossa
alle guance, dal sole. Nel cuore ha per lui gratitudine.
Lei ricorda un baciozzo rabbioso scambiato in un bosco,
interrotto a un rumore di passi, e che ancora la brucia.
Stringe a sè il mazzo verde - raccolto sul sasso
di una grotta - di bel capevenere e volge al compagno
un'occhiata struggente. Lui fissa il groviglio
degli steli nericci tra il verde tremante
e ripensa alla voglia di un altro groviglio,
presentito nel grembo dell'abito chiaro,
che la donna gli ignora. Nemmeno la furia
non gli vale, perché la ragazza, che lo ama, riduce
ogni assalto in un bacio c gli prende le mani.
Ma stanotte, lasciatala, sa dove andrà:
tornerà a casa rotto di schiena e intontito,
ma assaporerà almeno nel corpo saziato
la dolcezza del sonno sul letto deserto.
Solamente, e quest'è la vendetta, s'immaginerà
che quel corpo di donna, che avrà come suo, sia,
senza pudori, in libidine, quello di lei.
Tutti e due, a un tavolino, si guardano in faccia
nella sera, e i passanti non cessano mai.
Ogni tanto un colore più gaio li distrae.
Ogni tanto lui pensa all'inutile giorno
di riposo, trascorso a inseguire costei,
che è felice di stargli vicina e guardarlo negli occhi.
Se le tocca col piede la gamba, sa bene
che si danno a vicenda uno sguardo sorpreso
e un sorriso, e la donna è felice. Altre donne che passano
non lo guardano in faccia, ma almeno si spogliano
con un uomo stanotte. O che forse ogni donna
ama solo chi perde il suo tempo per nulla.
Tutto il giorno si sono inseguiti e la donna è ancor rossa
alle guance, dal sole. Nel cuore ha per lui gratitudine.
Lei ricorda un baciozzo rabbioso scambiato in un bosco,
interrotto a un rumore di passi, e che ancora la brucia.
Stringe a sè il mazzo verde - raccolto sul sasso
di una grotta - di bel capevenere e volge al compagno
un'occhiata struggente. Lui fissa il groviglio
degli steli nericci tra il verde tremante
e ripensa alla voglia di un altro groviglio,
presentito nel grembo dell'abito chiaro,
che la donna gli ignora. Nemmeno la furia
non gli vale, perché la ragazza, che lo ama, riduce
ogni assalto in un bacio c gli prende le mani.
Ma stanotte, lasciatala, sa dove andrà:
tornerà a casa rotto di schiena e intontito,
ma assaporerà almeno nel corpo saziato
la dolcezza del sonno sul letto deserto.
Solamente, e quest'è la vendetta, s'immaginerà
che quel corpo di donna, che avrà come suo, sia,
senza pudori, in libidine, quello di lei.
Cesare Pavese
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