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giovedì 1 novembre 2012

La porta del tempo



La spiaggia era deserta, ormai l’autunno inoltrato faceva sentire la sua presenza, il vento iniziava a essere pungente, soprattutto nelle prime ore della mattina. Anna non aveva l’orologio, era scesa in spiaggia con Spaz il suo cane, un collie di 6 anni, alle prime luci del giorno, le piacevano quei momenti, il silenzio del mondo e la sensazione di essere l’unico essere vivente sulla terra. Camminava per ore assaporando la solitudine e lasciando scorrere la mente su quella che era stata la sua vita, finché Spaz non veniva a pretendere cibo e coccole, allora lentamente si riavviavano verso casa. Le sembrava di avere ritrovato la pace, a cinquant’anni, ormai si sentiva abbastanza saggia e matura per poter vivere da sola, senza la presenza di un qualunque uomo che potesse ingannarla nuovamente. Marco, il suo ex marito era in carcere, condannato per stupro verso una giovane donna di vent’anni. L’unica cosa che si rimproverava era quella di essere sempre stata cieca su quell’uomo così affascinante quanto falso, cinico e arrogante. Ma ora le cose erano cambiate, un anno di terapia psicologica le era servito a prendere consapevolezza di sé, della sua vita, delle sue potenzialità come donna libera da ogni tipo di schiavitù.
Aveva scelto da sola di passare l’inverno nella casa sulla spiaggia, ereditata dai suoi genitori, dove da bambina aveva trascorso le sue vacanze ogni estate, dove aveva dato il suo primo bacio al figlio del bagnino e dove aveva perso la sua verginità, pensando che la vita si potesse decidere a 16 anni … si da quel luogo intendeva ripartire, come a voler riparare quegli errori di gioventù che si era portata appresso per un’intera vita. Alla fine di quell’inverno nella solitudine intendeva prendere le decisioni per il suo futuro.
Guardava l’orizzonte, Spatz correva e abbaiava ai gabbiani, era più avanti di lei, tre o quattrocento metri, lo chiamò ma la voce venne portata via dal vento. Ad un tratto il cane iniziò ad abbaiare e guaire girando attorno ad uno stesso punto come se ci fosse qualche cosa sulla sabbia, pensò ad un gabbiano ferito, la lontananza e le piccole dune formate dal vento le impedivano di vedere, iniziò a correre per raggiungere in fretta il punto. Quando giunse a circa dieci metri lo intravide, sembrava un cumulo di vestiti ammucchiato sulla battigia, Spatz continuava ad abbaiare irrequieto.
Il cuore iniziò a battere all’impazzata, vuoi per la corsa, vuoi per i pensieri che iniziavano ad affollarle la mente mentre realizzava che ciò che aveva davanti non era un cumulo di vestiti, ma era un uomo. Si fermò di colpo impossibilitata a muovere un solo altro passo, come se qualcuno la trattenesse. Sembrava morto, forse lo era veramente, doveva chiamare subito qualcuno, si sentiva paralizzata, incapace di prendere una qualsiasi decisione, le sembrava di essere ripiombata nel baratro. Mentre lo osservava indecisa sul da farsi, la figura si mosse, quasi impercettibil-mente, quel tanto da farle capire che non era morto, allora in lei si mosse qualche cosa, forse lo spirito della crocerossina che alberga in ogni donna, le diede quella forza di spirito per affrontare quella nuova situazione. Con un balzo fu al di là dell’ultima duna, e si inginocchiò vicino all’uomo cercando di capire se fosse ferito, iniziò a toccarlo e a chiamarlo, la sua reazione fu immediata, aprì gli occhi e la fissava disorientato. Dal canto suo Anna sembrava rapita da quello sguardo, quegli occhi non le erano nuovi, le sembrava di conoscerlo, ma la barba incolta e i capelli brizzolati le mettevano dei dubbi, come un giovane appannato dagli anni. Infatti gli occhi che lei ricordava erano quelli di un ragazzo conosciuto molti anni prima, ma il volto che le si presentava davanti era quello di un uomo maturo sui cinquntacianque. Un nome iniziò ad affiorarle dai ricordi: Gino … si Gino, era proprio lui! Non c’erano dubbi, era Gino il suo compagno di giochi, scomparso in mare quarant’anni prima, quando era stato colto da una burrasca durante una lezione di vela. Il giorno dell’incidente, c’erano in mare circa 15 ragazzini tutti intenti ad imparare a portare delle piccole barche a vela, l’istruttore li seguiva con la sua, il tempo non era bello, ma decisero comunque di fare la lezione, improvvisamente il vento cambiò e la scotta della randa scartò dalla parte opposta scaraventando Gino fuori bordo, il mare grosso lo trascinò tra le onde e nonostante i tentativi di raggiungerlo e recuperarlo tutto fu inutile. Nemmeno il corpo non fu mai recuperato. Per settimane i suoi genitori e tutti loro amici si recarono sulla spiaggia, ogni giorno, sperando che il mare restituisse loro almeno le spoglie del ragazzo. Poi le speranze cessarono e loro smisero di cercarlo rassegnati.
Ma adesso Gino era li, davanti a lei, come se il tempo fosse passato solo sui loro volti, erano li sulla stessa spiaggia dove Gino era scomparso quarant’anni prima, e il mare, se ben con lungo ritardo, aveva restituito Gino alla sua spiaggia.
Lo sguardo di Gino la incontrò con profonda gratitudine, ma non sembrò riconoscerla, Anna lo aiutò ad alzarsi, era debole, lo sorresse per tutto il tragitto di ritorno verso la casa sulla spiaggia, Spatz li seguiva incerto e discreto, non abbaiò e non cercò le coccole di Anna come era solito fare, anche lui aveva inteso che qualche cosa di speciale stava accadendo e non osava intromettersi nell’evento per non sciuparlo.
Arrivati a casa Anna aiutò Gino a mettersi nel letto, era molto provato, ma riuscì a sussurrarle un grazie con un filo di voce, poi piombò in un sonno profondo, a volte agitato e popolato da fantasmi che cercava di scacciare rigirandosi continuamente. Anna dal canto suo lo osservava, seduta nella sedia in vimini vicino alla vetrata che dava sulla spiaggia, la giornata passò  tra lo scorrere dei ricordi che tornarono ad affollarle la mente, ricordi di lei bambina insieme agli amici nei giochi di spiaggia, o al rincorrersi tra le vie affollate del paese, dove giocavano a nascondersi sotto i banchi del mercato. Gino era sempre stato un bambino schivo e taciturno, ma l’allegra brigata lo trascinava nei giochi scatenati e lui li lasciava fare partecipando sorridente.
Il sole iniziava a calare e Anna si accorse che Gino si era calmato, ora dormiva serenamente, il respiro era tranquillo e regolare. Pensò allora di andare a preparare un po’ di brodo per quando si sarebbe svegliato, lei aveva mangiato qualche biscotto e una tazza di te, tanto lo stomaco non avrebbe ricevuto altro vista l’emozione per quel inaspettato evento che  aveva aperto la sua giornata. Spatz se ne stava sdraiato ai piedi del letto e vegliava sul sonno del nuovo ospite.
Anna preparò la cena, una minestra di verdura e del pesce alla griglia, qualche foglia di insalata. Mentre preparava la tavola venne colta dalla sensazione di essere osservata, le si irrigidirono i muscoli, alzò lo sguardo e lo vide, Gino stava sulla porta della camera, la stava osservando con sguardo incuriosito, Spatz dal canto suo, gli stava accanto e scodinzolava silenzioso, quell’uomo gli dava fiducia, mai si era comportato così docilmente verso un estraneo, in passato, aveva ringhiato e abbaiato anche al suo ex marito senza un motivo anche se lo conosceva da sempre. Questo la rassicurò, gli fece un sorriso che venne subito ricambiato. Gino si mosse verso di lei, era un bell’uomo, brizzolato con la barba, molto alto, forse un metro e ottanta e una corporatura robusta, un bel sorriso limpido incorniciava una dentatura ancora perfetta, le rughe attorno agli occhi gli davano un’aria rassicurante e saggia che la metteva a proprio agio.
Lo invitò a prendere posto a tavola, i loro sguardi si incrociarono ma le parole stentavano ad uscire, lei non voleva essere invadente, ma gli chiese se si ricordava quello che era successo e come mai si trovasse sulla spiaggia semisvenuto. Gino a quella domanda sembrò disorientato, rimase in silenzio per lunghi minuti, poi con un filo di voce rispose che non lo sapeva, le chiese chi era lei e perché lo chiamasse Gino, lui non ricordava chi fosse e nemmeno il suo nome, non ricordava nulla di ciò che era accaduto prima di quella mattina, era salito sulla sua barca a vela insieme ad altri con le loro barche, il tempo non prometteva nulla di buono ma la lezione venne fatta ugualmente, poi un tonfo e più nulla, si era risvegliato alla voce di lei, nessun ricordo prima della salita sulla barca. Anna rimase perplessa e silenziosa, per la mente di Gino il tempo sembrava essere rimasto a quel fatidico giorno, tutto ciò che doveva essere stata la sua vita era scomparsa. Allora decise di raccontargli quello che era accaduto, gli raccontò dei suoi genitori, dei ragazzi che erano con lui, dei giochi che facevano assieme d’estate, gli raccontò aneddoti e fatti, insieme ridevano e sorridevano, accesero insieme il camino e si accomodarono sul morbido tappeto ai piedi del divano, c’era una bella atmosfera famigliare, sembrava che lentamente qualche cosa riaffiorasse dalla sua mente di Gino, sulla sua infanzia. Poi Anna, così come si fa con un amico di vecchia data, iniziò a raccontarle di lei, della sua vita, dei sui fallimenti, di ciò che l’aveva riportata su quella spiaggia e in quella casa. Si era fatta scura in volto, e un velo di tristezza le copriva la faccia. La mossa fu istintiva e naturale, Gino le passò un braccio attorno alle spalle e la attirò a sé, Anna si abbandonò in quell’abbraccio sentendosi al sicuro e protetta, non era più sola, chiuse gli occhi e si addormentò.
Si svegliò nel cuore della notte, era nel suo letto, accanto a lei Gino la osservava silenzioso, abbozzò un sorriso e le disse: - Io, non ricordo nulla di quella che è stata la mia vita fino a qui, ricordo di quand’eravamo bambini, si mi ricordo tutto, ma dal giorno dell’incidente ho il vuoto più assoluto. Mentre dormivi mi sono permesso di usare il telefono, ho scoperto che lo so usare … buffo no? Ho chiesto informazioni sulla mia famiglia, mi hanno detto che non abitano più qui da vent’anni. Vorrei che mi aiutassi a ritrovarli, se ti va naturalmente.
Anna a quel punto dovette dirglielo: - Gino, i tuoi genitori sono morti entrambi vent’anni fa, se ti ricordi non hai fratelli ne sorelle e nemmeno altri parenti che io sappia, … mi dispiace Gino.
Allora ho solo te, rispose Gino con molta spontaneità, si distese al suo fianco e come un bambino appoggiò la testa nell’incavo del braccio di lei, mentre calde lacrime iniziarono a rigargli il volto. Anna lo accolse e lo strinse a sé cullandolo dolcemente, i loro volti erano così vicini che i loro respiri si mescolarono, le labbra iniziarono a cercasi e come in un sogno i loro corpi si unirono dolcemente. Le loro solitudini iniziavano finalmente a colmarsi. Gino era tornato attraversando la porta del tempo, e forse un miracolo era accaduto.

lunedì 3 settembre 2012

AMANDO L'ALBA (25 agosto 2012)

Sono le 5,30 e sono sulla spiaggia, il cielo è nettamente limpido, ancora puntellato di flebili bagliori di stelle verso nord, dove ancora la notte lascia  il suo strascico di blu mentre l’alba si guadagna passo, passo il suo spazio. L’aria è frizzante dopo la burrasca del giorno precedente, tanto da costringermi a indossare un pile; ma trova comunque modo di avvolgere le sue spirali sulla mia pelle,  passando da microscopiche fessure concesse dagli abiti, allunga i suoi tentacoli freddi, accarezza e dispensa brividi schietti e improvvisi. Impercettibilmente la luce cambia in pochi istanti si scioglie come tempera nell’acqua l’azzurro, in un amalgama di caldi colori e riflessi elargiti da un sole nascente, ma ancora nascosto tra le pieghe di alberi e strisce di terra riversandosi lento nella calma piatta e silenziosa della risacca ancora insonnolita e nel suo respiro ritmico formato da lievi increspature che avanzano fin ad adagiarsi sulla battigia. Si destano i gabbiani, posati a gruppi sulla spiaggia, qualcuno spicca un volo, plana lento a pelo d’acqua, cerca tra i flutti un pesciolino, si tuffa lo pesca poi con un battito d’ali di nuovo in volo. Ormai il sole è sorto e la magia dell’alba finita, dissolta in pochi minuti. Si accorciano allungati coni d’ombra formati da fitte onde di sabbia accarezzata dal vento, ombre che somigliano a tanti pensieri scuri densi di affanni di un giorno che viene, e sento ancora il freddo, ancora l’intricata ragnatela in cui mi ha lentamente imprigionato, mi è entrato scorrendomi nelle vene, bloccandomi quasi i movimenti. Allora mi abbandono a un nuovo abbraccio, a quel sole che allunga le sue dita sulla mia pelle donandomi quasi un lieve torpore simile all’abbraccio  di una mamma, caldo e rassicurante. Per qualche minuto ancora mi lascio cullare da quella sensazione, poi decisa mi alzo e cammino a passo svelto verso quella palla colorata di rosso che si staglia nel cielo. Sotto i piedi un’accozzaglia di frammenti, scricchiolano come brina sull’erba nelle gelide mattine invernali. Cocci di vita spenta giacciono ammucchiati dalla foga delle onde, … io non sono tra questi, ne sono stata travolta, ma non abbattuta … sono e mi sento viva ancora nella profondità delle acque, nel mio mare chiuso che ancora mi protegge e placido mi culla, amorevole padre. Rompe l’idillio silenzioso il battito dei remi di una pagaia che si sposta veloce, spinta dal ritmico movimento di braccia, si perde come bruciata nei riflessi di sole allungati come lingue di fuoco, incendiano la superficie. Al suo passaggio una fila ordinata di gabbiani si scompiglia verso il cielo, tuffandosi nell’aria tra le risate e i loro echi stonati. Rido contagiata da tanta meravigliosa semplicità, mentre ancora dentro il cuore, mi rode e mi arde un piccolo fuoco celato sotto la cenere di un falò notturno che ancora rilascia una debole fluttuante scia di fumo sottile, e si disperde nella brezza  come disperdo il mio io nel vivere quotidiano …

martedì 1 maggio 2012

1° MAGGIO ricorrenza di una vita qualunque

Era uno di quei giorni di primavera, quella che si era fatta aspettare, finalmente era arrivata, dentro le giornate limpide e le nuvole alterne, di gocce e di aria, ora tiepida ora da far rabbrividire.
Una di quelle giornate da scampagnata, ma il senso di quella giornata era un'altro, la giornata dei lavoratori, delle rivendicazioni, delle belle riunioni di piazza, dove un qualunque saccente ben fornito di dialettica si innalza su un pulpito e istiga la gente, gente contro gente, ideali assopiti vengono risvegliati, fervori e rabbie latenti rinforzate, canti del passato proposti come colonne sonore dell'oggi che in nulla è variato.
Dio, quanto volevo evitare tutto questo e ricordarmi che era giorno di festa, dove non pensare ai fastidi di domani. Eppure venivo catapultata li in mezzo agli altri, gioiosi e invasati dentro la fasulla ideologia di avere un potere se dentro una piazza potevano cantare e farsi sentire, dentro la fasulla convinzione che il biglietto d'entrata potesse servire a sanare un qualche cosa che riguardava tutti noi...e invece quell'introito se lo sarebbero spartiti quei pochi avvoltoi e parassiti che ci attiravano come farfalle nella tela di un ragno, e noi ignari e consapevoli eravamo li comunque e ad ogni costo.
Fu allora la fantasia, quella che nella confusione del momento prese il sopravvento, portandomi lontano dalla folla e dalla confusione, dal vociare concitato, dagli striscioni bianchi imbrattati di verità e di insulti, dal rosso delle bandiere intrise del sangue di chi sudore da dare non ne aveva ormai più, lontano dall'indignazione scritta dentro ma mai del tutto dimostrata nei fatti.
La fantasia mi spinse dentro gli occhi di uno dei tanti che erano li, gli sguardi si incrociarono spesso durante la giornata, in un rincorrersi e un cercarsi, un fuggire dall'ovvio e ritrovarsi al di là, nella giornata che avrei voluto: stesi in un prato a sbirciarci di sottecchi tra i fili d'erba e i fiori selvatici, a sorriderci tra le ciocche di capelli scompigliate  nel vento, e come una nuvola che si in frappone tra terra e sole mi attirasti su di te, mordendomi mani e collo, solleticandoci avrei riso sfuggendoti, cercando nella corsa la mano ...
Tutti e due a guardarci, a giocare ancora dentro un fiume di gente che ci attorniava e ci spingeva fin a farci arrivare l'uno contro l'altra e non sono ora gli occhi a sfiorarsi, ma le mani di nascosto si cercano, strofinandosi al ritmo di una musica e di un canto che nulla appartiene a quella piazza, ma risuona come sfondo all'intreccio dei corpi, nell'immaginario nudi, ci diamo uno sguardo sorpreso e un sorriso, arrossendo.
Indietreggiammo insieme, passo dopo passo, strascicando i piedi, spingendo e scivolando tra braccia e corpi sudati, tra parole e mezze parole senza un senso preciso che formavano discorsi assurdi, ci ritrovammo sputati fuori dalla folla, ai margini del bosco che costeggia la radura piena di gente, e in esso ci addentrammo, quel tanto per sfuggire agli occhi indiscreti, allora un tronco ruvido ci faceva da riparo schiacciati l'uno contro l'altra le labbra si cercavano ci scambiammo un bacio lungo e frenetico, il sapore del sudore che imperlava i volti si mescola alla saliva, le mani scorrevano sotto i vestiti leggeri alla ricerca di sapori nascosti tra sguardi struggenti e implorevoli, gli umori caldi e odorosi impregnano mani  e cosce, si liberavano gemiti silenziosi e senza fiato, si mescolavano i corpi con il creato, tutto divenne spazio indefinito, scomparvero le folle, le musiche e le parole. La voglia che fluiva nel grembo venne saziata con assalti ritmici e baci umidi nel calore di una giornata di primavera che come fine ultimo prendeva la forma della festa dei lavoratori, ma oggi mi ricorda il giorno in cui venne concepito mio figlio, con uno sconosciuto padre inconsapevole, un lavoratore qualunque morto colpito da un proiettile vagante nei tafferugli sviluppatesi nel giorno del 1° maggio ...

(racconto inventato, che mette in luce alcuni aspetti della ricorrenza, trascinando in un finale che ha del possibile e è nella coerenza dei nostri giorni)
IvanaZoia tutti i diritti riservati 2012 vietata la riproduzione

P.S. Il racconto nasce ispirato a uno scritto-poesia di Cesare Pavese "Lavorare stanca" riportata qui di seguito:

I due, stesi sull'erba,
vestiti, si guardano in faccia tra gli steli sottili:
la donna gli morde i capelli
e poi morde nell'erba. Sorride scomposta, tra l'erba.
L'uomo afferra la mano sottile e la morde
e s'addossa col corpo. La donna gli rotola via.
Mezza l'erba del prato è così scompigliata.
La ragazza, seduta, s'aggiusta i capelli
e non guarda il compagno, occhi aperti, disteso.
Tutti e due, a un tavolino, si guardano in faccia
nella sera, e i passanti non cessano mai.
Ogni tanto un colore più gaio li distrae.
Ogni tanto lui pensa all'inutile giorno
di riposo, trascorso a inseguire costei,
che è felice di stargli vicina e guardarlo negli occhi.
Se le tocca col piede la gamba, sa bene
che si danno a vicenda uno sguardo sorpreso
e un sorriso, e la donna è felice. Altre donne che passano
non lo guardano in faccia, ma almeno si spogliano
con un uomo stanotte. O che forse ogni donna
ama solo chi perde il suo tempo per nulla.
Tutto il giorno si sono inseguiti e la donna è ancor rossa
alle guance, dal sole. Nel cuore ha per lui gratitudine.
Lei ricorda un baciozzo rabbioso scambiato in un bosco,
interrotto a un rumore di passi, e che ancora la brucia.
Stringe a sè il mazzo verde - raccolto sul sasso
di una grotta - di bel capevenere e volge al compagno
un'occhiata struggente. Lui fissa il groviglio
degli steli nericci tra il verde tremante
e ripensa alla voglia di un altro groviglio,
presentito nel grembo dell'abito chiaro,
che la donna gli ignora. Nemmeno la furia
non gli vale, perché la ragazza, che lo ama, riduce
ogni assalto in un bacio c gli prende le mani.
Ma stanotte, lasciatala, sa dove andrà:
tornerà a casa rotto di schiena e intontito,
ma assaporerà almeno nel corpo saziato
la dolcezza del sonno sul letto deserto.
Solamente, e quest'è la vendetta, s'immaginerà
che quel corpo di donna, che avrà come suo, sia,
senza pudori, in libidine, quello di lei.

Cesare Pavese