LA PANCHINA (breve racconto)
Ti guardavo passando, ogni sera, mentre rientravo alla mia confortevole dimora, ti guardavo, occupavi sempre lo stesso posto, quello ormai ti apparteneva di diritto; arrivavi verso sera, pian piano, sistemavi le tue proprietà come si sistema il proprio spazio per sentirsi a proprio agio, con meticolosa precisione sistemavi gli oggetti che più ti erano cari secondo un tuo ordine preciso, portavi con te, sempre, un cartone nuovo che spiegavi e stendevi sopra la panchina, ripiegandolo amorevolmente perché ti facesse da materasso e da tetto, lasciando un piccolo spazio per vedere le stelle; poi ti stendevi e ti rinchiudevi come un bruco dentro un bozzolo e da li guardavi dentro una cornice la gente che passava, un andirivieni di piedi veloci, visi indifferenti, cuori spenti, guardavi così il tuo programma serale dove anche io entravo come comparsa frettolosa, curiosa ti guardavo e sorridevo felice di vederti ancora li come ogni sera puntuale, presenza rassicurante nella imprevedibilità della giornata, ma già al mattino quando tutto ricominciava la panchina era di nuovo vuota, solitaria, persa nel parco triste nella sua isolata nicchia tra i rami spogli e ti aspettava bramosa del tuo calore,
del tuo modo speciale di adornarla e renderla finalmente amata. Venne poi la neve, scese lenta tutta la notte, coprì ogni cosa di un denso soffice tappeto candido, persi ore a guardarla dalla finestra ammaliata davanti allo spettacolo quasi insolito; il tuo pensiero mi sfiorò appena come una carezza d'aria, pensai che saresti stato costretto a riordinare in fretta tutte le tue cose e in fretta ti saresti recato in un riparo più adatto, a riscaldarti insieme a tanti altri che come te amavano in fondo la riservatezza della solitudine. Passarono giorni prima che si potesse di nuovo uscire per strada e tornare a una apparente normalità e quando fu possibile tornai alle mie mansioni aspettando la sera, l'ora del rientro in cui ti avrei nuovamente visto indaffarato a ricomporre il tuo giaciglio, ma quella sera non c'eri e nemmeno la successiva, ne quella dopo ancora, non seppi più nulla di te come se tu fossi stato parte della neve e ti fossi sciolto con essa, ma io amo immaginarti come una farfalla uscito dal tuo bozzolo di cartone e liberate le ali hai spiccato il volo per vedere dall'alto tutta l'indifferenza che brulica simile alle formiche indaffarate senza alzare mai gli occhi al cielo, immaginare tutti gli sguardi stanchi e assonnati posati per caso sulla tua panchina vuota che con me piange la tua assenza.
Ti guardavo passando, ogni sera, mentre rientravo alla mia confortevole dimora, ti guardavo, occupavi sempre lo stesso posto, quello ormai ti apparteneva di diritto; arrivavi verso sera, pian piano, sistemavi le tue proprietà come si sistema il proprio spazio per sentirsi a proprio agio, con meticolosa precisione sistemavi gli oggetti che più ti erano cari secondo un tuo ordine preciso, portavi con te, sempre, un cartone nuovo che spiegavi e stendevi sopra la panchina, ripiegandolo amorevolmente perché ti facesse da materasso e da tetto, lasciando un piccolo spazio per vedere le stelle; poi ti stendevi e ti rinchiudevi come un bruco dentro un bozzolo e da li guardavi dentro una cornice la gente che passava, un andirivieni di piedi veloci, visi indifferenti, cuori spenti, guardavi così il tuo programma serale dove anche io entravo come comparsa frettolosa, curiosa ti guardavo e sorridevo felice di vederti ancora li come ogni sera puntuale, presenza rassicurante nella imprevedibilità della giornata, ma già al mattino quando tutto ricominciava la panchina era di nuovo vuota, solitaria, persa nel parco triste nella sua isolata nicchia tra i rami spogli e ti aspettava bramosa del tuo calore,
del tuo modo speciale di adornarla e renderla finalmente amata. Venne poi la neve, scese lenta tutta la notte, coprì ogni cosa di un denso soffice tappeto candido, persi ore a guardarla dalla finestra ammaliata davanti allo spettacolo quasi insolito; il tuo pensiero mi sfiorò appena come una carezza d'aria, pensai che saresti stato costretto a riordinare in fretta tutte le tue cose e in fretta ti saresti recato in un riparo più adatto, a riscaldarti insieme a tanti altri che come te amavano in fondo la riservatezza della solitudine. Passarono giorni prima che si potesse di nuovo uscire per strada e tornare a una apparente normalità e quando fu possibile tornai alle mie mansioni aspettando la sera, l'ora del rientro in cui ti avrei nuovamente visto indaffarato a ricomporre il tuo giaciglio, ma quella sera non c'eri e nemmeno la successiva, ne quella dopo ancora, non seppi più nulla di te come se tu fossi stato parte della neve e ti fossi sciolto con essa, ma io amo immaginarti come una farfalla uscito dal tuo bozzolo di cartone e liberate le ali hai spiccato il volo per vedere dall'alto tutta l'indifferenza che brulica simile alle formiche indaffarate senza alzare mai gli occhi al cielo, immaginare tutti gli sguardi stanchi e assonnati posati per caso sulla tua panchina vuota che con me piange la tua assenza.
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